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Nanoelettronica – Il mondo mini
Grandi cose accadono in minuscoli spazi: il settore dell’elettronica sta iniziando a sviluppare dispositivi composti al loro interno da elementi grandi quanto una manciata di atomi. Questo non solo renderà i computer ancora più potenti e più efficienti da un punto di vista energetico, ma aprirà le porte alla produzione di dispositivi elettronici completamente nuovi. L’impatto di queste innovazioni potrebbe davvero cambiare la vita delle persone.
Immaginate un intero laboratorio di diagnostica clinica all’interno di un contenitore grande quando il vostro pollice, oppure delle lenti per occhiali che non solo mostrano, a richiesta, le previsioni meteo del giorno successivo, ma ricaricano anche le batterie del cellulare. Dispositivi di questo tipo sono solo alcune delle tante possibilità immaginabili grazie alla nanoelettronica, un approccio che sfrutta proprietà assolutamente uniche che nascono quando i materiali sono creati e assemblati su minuscola scala.
“La nanoelettronica riguarda dispositivi che hanno caratteristiche di dimensione non superiore a 100 nanometri, nei quali le caratteristiche definiscono la funzionalità del dispositivo stesso”, spiega Jo De Boeck, Ph.D., Chief Technology Officer e Vice Presidente Esecutivo di Imec, centro di ricerca belga sulle nanotecnologie. 100 nanometri (nm) sono davvero poco: un diecimillesimo di millimetro, più o meno la dimensione del virus dell’influenza. “Ad una scala così ridotta, si possono osservare caratteristiche incredibilmente diverse”, continua il Dottor De Boeck. “Ad esempio gli effetti quantici. Si possono modificare leggermente le proprietà elettriche dei materiali, o spostare le lunghezze d’onda della luce laser”.
Oggi i dispositivi elettronici comunemente utilizzati fanno già ampio uso della nanoelettronica. I circuiti integrati (CI) più avanzati, o i chip dei computer, sono formati da miliardi di transistor di non più di 25 nm, e perfino più piccoli.
Elettrone
“La nanoelettronica ha già cambiato le nostre vite”, aggiunge De Boeck. “Questo è il motivo per cui non ci bruciamo le dita quando telefoniamo usando i cellulari. È grazie ad essa che possiamo utilizzare schermi ad altissima risoluzione sui dispositivi mobili o sui computer portatili”.
Sicuramente, la capacità di progettare oggetti con elementi integrati 1.000 volte più piccoli di un capello umano è enormemente cresciuta grazie allo sviluppo, negli ultimi cinquanta anni, di circuiti integrati sempre più potenti ed efficienti. La “legge di Moore”, proposta nel 1965 da Gordon Moore, cofondatore della società Intel, affermava che la densità dei transistor all’interno di un unico circuito integrato sarebbe raddoppiata ogni due anni circa.
Da allora, l’industria è sempre riuscita a rispettare le previsioni di Moore, adottando nuovi materiali o sviluppando tecniche di produzione che consentissero di stipare su un supporto di silicone sempre più componenti, di dimensioni sempre più ridotte. Oggi i circuiti integrati più all’avanguardia presentano elementi di soli 22 nm di larghezza, e i ricercatori stanno già provando a capire come ridurre della metà questo valore. Tuttavia, nella loro corsa verso l’impiego di elementi grandi quanto una manciata di atomi, i ricercatori iniziano a scontrarsi contro una serie di limiti fisici.
Andare oltre i limiti
“Tre le possibilità che i ricercatori hanno di aumentare la performance dei microchip”, sostiene Claus Poppe, Vice Presidente di Elettronic Materials di BASF. “Innanzitutto, ridurre la dimensione dei transistor. Questo è quello che ci suggerisce la legge di Moore. Tuttavia, è opinione diffusa nel settore che la lunghezza minima raggiungibile per il gate di un transistor sia di 5nm, meta che raggiungeremo nei prossimi 10 anni. La seconda possibilità consiste nell’utilizzare nuovi materiali, come il cobalto o il germanio, in sostituzione o in aggiunta al silicone attualmente impiegato. La terza possibilità ruota attorno alla geometria, con la sostituzione delle attuali geometrie bidimensionali con quelle in 3D”.
La capacità dell’industria di raggiungere i suoi prossimi obiettivi in termini di evoluzione delle tecnologie dipenderà in parte dalla chimica. Gran parte dei 600-1000 cicli di processo necessari per costruire un moderno chip per computer richiede input chimici (vedi grafico a pagina 57), e ogni evoluzione dei chip impone nuove richieste al settore chimico. “Man mano che si arriva alla nanoscala, il nostro know-how chimico diventa il fattore chiave di successo”, commenta Lothar Laupichler, Senior Vice President di BASF Electronic Materials. Una delle sue unità, con sede in Corea del Sud, occupa circa due terzi di tutto il personale aziendale nel settore dell’elettronica, a dimostrazione del ruolo che l’Asia ricopre oggi nel settore dei CI su scala mondiale. “Perché vi sia innovazione a livello di nanoelettronica, è necessario comprendere le interazioni che avvengono a livello molecolare, che richiedono anche uno straordinario livello di purezza”, afferma Boris Jenniches, Vice Presidente, Business Management di BASF Electronic Materials Asia Pacifico, e responsabile dell’unità. La purezza è fondamentale poiché, a queste dimensioni, la presenza di anche solo qualche atomo di materiale estraneo può fare la differenza fra un circuito funzionante ed uno difettoso. Jan Willmann, Operations Manager presso il Competence Center Analytics
La purezza è fondamentale poiché, a queste dimensioni, la presenza di anche solo qualche atomo di materiale estraneo può fare la differenza fra un circuito funzionante ed uno difettoso. Jan Willmann, Operations Manager presso il Competence Center Analytics Clean Room Lab di BASF in Germania, ha proprio questo compito: controllare che i materiali elettronici di BASF rispettino gli altissimi livelli di purezza richiesti dai clienti. “Stiamo tentando id individuare la presenza di contaminanti a livelli compresi fra le 10 e le 100 parti per trilione”, aggiunge Willmann. “A questo livello, se mostrassimo il campione ad un operatore del settore farmaceutico, questi risponderebbe che non vede nulla e che il campione è perfettamente pulito”.
Più veloce, economico ed efficiente da un punto di vista energetico
La capacità di dar forma e manipolare i materiali con precisione straordinaria a livello di nanoscala sta aprendo le porte a tante opportunità in settori che vanno oltre la progettazione dei classici chip. Molte delle limitazioni delle batterie tradizionali derivano proprio dal modo in cui esse sono fisicamente progettate. Per produrre batterie migliori, gli ingegneri devono riuscire ad aumentare l’effettiva superficie dell’anodo e del catodo per agevolare il passaggio degli elettroni fra i due. “Questo sarà possibile non appena riusciremo a progettare la superfice degli elettrodi con una geometria tridimensionale in nanoscala”, spiega Philip Pieters, Direttore del Business Development, Energy Technologies di Imec.
I ricercatori sperano che queste batterie non solo possano immagazzinare più energia rispetto a quelle più tradizionali, ma che siano in grado di ricaricarsi molto più velocemente, aprendo la strada a dispositivi elettronici e perfino a veicoli elettrici ricaricabili in pochi minuti, anziché ore. Oltre a batterie in nanoscala, il team di ricerca di Pieters sta lavorando a tecnologie di stampa ad altissima precisione, che possano essere usate per applicare strati ultrasottili di materiali elettronici in tantissimi altri settori. Fotovoltaici stampabili, ad esempio, potrebbero un giorno permettere agli edifici di generare elettricità dalla luce riflessa su facciate e finestre, o perfino dalla luce, altrimenti sprecata, che colpisce muri e soffitti all’interno degli edifici.
“ Un test diagnostico che richiede meno di 10 minuti e costa meno di 10 dollari potrebbe trasformare il sistema sanitario di tanti Paesi del mondo.”
Dr. Robert Bollinger, John Hopkins University
Aneeve Nanotechnologies, spin-off della University of California di Los Angeles, ha sviluppato una soluzione che permette la stampa di circuiti elettronici su un’ampissima gamma di substrati. “Il processo di stampa non solo è molto economico ed efficiente dal punto di vista energetico, rispetto alla tradizionale produzione di chip, ma offre anche una serie di vantaggi ambientali”, commenta Kosmas Galatsis, CEO di Aneeve. Egli sostiene che le nanocondutture in carbonio utilizzate dall’azienda sono “sicure, sostenibili e disponibili in abbondanza rispetto ad alcuni dei materiali assai rari quali il tantalio e l’indio, essenziali per molti degli attuali prodotti elettronici convenzionali”.
L’approccio di Aneeve permette l’impiego dei circuiti anche su materiali trasparenti, che diventano così invisibili ad occhio umano. L’azienda spera in questo modo di poter ridurre sensibilmente il costo di produzione di schermi resistenti ma flessibili, come anche dei dispositivi per le comunicazioni senza filo. Questo, a sua volta, permetterebbe lo sviluppo di tecnologie da indossare, come ad esempio occhiali con schermi integrati in grado di offrire un’esperienza di “realtà aumentata”: frecce di navigazione fluttuanti potrebbero facilitare gli spostamenti all’interno di città sconosciute, o richiamare recensioni dei clienti e orari di apertura quando ci si trova in prossimità di negozi o ristoranti.
Nel frattempo, Heapsylon, giovane sturt up di Seattle, avviata da un gruppo di ex dipendenti di Microsoft, sta percorrendo una strada ancora diversa, e utilizza le tecnologie della nanoelettronica per costruire sensori da inserire direttamente all’interno dei capi di abbigliamento. I suoi prodotti, che includono calzini per runner per il controllo della pressione e reggiseni e magliettine in grado di misurare la frequenza cardiaca di chi li indossa, sono descritti come soffici al tatto e completamente lavabili in lavatrice.
Il laboratorio in un chip
Oltre a portare le tecnologie per la produzione dei circuiti integrati verso le più diverse applicazioni, la nanoelettronica inizia ad essere utilizzata per aprire possibilità assolutamente nuove, perfino all’interno dei chip stessi. Le tecnologie che permettono ai produttori di chip di imprimere forme e applicare materiali diversi nei transistor consentono anche di costruire piccolissime tubature, minuscoli sensori e macchine in miniatura. All’inizio di quest’anno, Imec ha avviato una collaborazione con la Johns Hopkins University del Maryland, Stati Uniti, per seguire lo sviluppo di sistemi di nanoelettronica per la diagnosi medica. “Sogniamo di produrre un dispositivo grande quanto una penna USB in grado di effettuare molti degli esami diagnostici attualmente eseguiti dai laboratori”, spiega Liesbet Lagae, Direttore del programma Life Sciences di Imec.
Usando sensori integrati all’interno di microchip, il team Imec spera di poter effettuare tutta una serie di esami di laboratorio, dai test di gravidanza, all’identificazione di anticorpi per virus quali l’HIV e perfino l’analisi del DNA. “Abbiamo già tutte le componenti di base che ci servono”, sostiene Lagae. “Oggi conosciamo già la microfluidica che ci permette di costruire piccole pompe capillari all’interno dei nostri circuiti, il che significa che il campione si alimenta da solo il chip. Possiamo inoltre effettuare PCP (Reazioni a Catena della Polimerasi), per l’amplificazione del DNA prima dei normali test. Sappiamo infine come integrare biomarker all’interno dei nostri circuiti in grado di generare un segnale elettrico o fotonico quando esposti ad enzimi o anticorpi particolari”.
Molto è il lavoro che attende il team Imec Johns Hopkins, prima che la vision diventi concreta realtà ma, come è successo con i chip tradizionali, molto dipenderà dagli sviluppi della chimica. Integrare delicate molecole biologiche all’interno dei chip è ancora una grandissima sfida. “Dobbiamo risolvere il problema della vita a scaffale”, spiega Lagae. “I biomarker devono essere stabilizzati perché non si rompano prima di essere utilizzati, e questo ancora non è avvenuto, nell’attuale ambiente in silicone”. Esistono anche delle difficoltà a livello di produzione: molti dei passaggi della produzione di un chip tradizionale richiedono l’impiego di temperature elevate, che potrebbero distruggere le delicate strutture biochimiche.
“Immaginiamo un dispositivo grande quanto una chiavetta USB in grado di effettuare molti dei testi diagnostici che oggi eseguiamo nei laboratori"
Liesbet Lagae, responsabile del programma Life Sciences di Imec
Le implicazioni di lungo periodo della nanoelettronica in biomedicina potrebbero condurre a cambiamenti epocali, sostiene il dottor Robert Bollinger, a capo del programma di nanoelettronica biomedica presso la Johns Hopkins University. “La capacità di effettuare esami medici al punto di cura del paziente, qualunque esso sia, migliorerà l’accesso a trattamenti di alta qualità e ridurrà la necessità di strutture mediche dedicate”.
Tuttavia, il cambiamento dipenderà dalla capacità dell’industria elettronica di dare vita a enormi quantità di prodotti di minuscole dimensioni, a prezzi competitivi. “Dal momento che la nanoelettronica utilizza la scala produttiva dell’industria dei semiconduttori, c’è la possibilità di portare la produzione a volumi elevati e a costi molto contenuti”, aggiunge Bollinger. “Un test diagnostico che richiede meno di 10 minuti e costa meno di 10 dollari può trasformare la sanità in tanti Paesi del mondo”.